martedì 4 dicembre 2012

L’Opera poetica di Ciro Vitiello è proiezione e trasfigurazione delle forme che la caratterizzano


Pubblichiamo qui di seguito una nota critica di Ninnj Di Stefano Busà sull'opera poetica di Ciro Vitiello.

É un corpo unico la poesia di Ciro Vitiello, come roccia di minerale durissima che taglia nettamente il traguardo da altre forme di linguaggio, nel riformulare una voce che unifica e trasferisce il messaggio lirico nella sua limpidezza, nonché nel poematico spazio di un pensiero che si fa di volta in volta riflettente, immaginifico, recettore di un mondo apparente che però ha la capacità di trasformarsi in tensionale, sentimentale, inquieto, interpretativo di processi mentali che hanno il senso della realtà, ma l’attitudine ad essere altro da sé, in un altrove immaginifico, fino alle massime punte della visionarietà. È un procedimento mentale che sa cogliere la visione del mondo e orchestrarla per suo conto, con l’emotività che gli è congeniale, attraversando tutte o quasi le occasioni di percezioni valoriali, morali, sociali, amorose.
Il componimento si erge con tutta la carica prorompente del tratto fisiologico-biografico. Una stesura essenziale, una inquietudine e un travaglio che gli derivano dall’essere per tentare elementi di reinvenzione iconografico-espressive.
Vi sono tensioni a livello emozionale nella sua produzione poetica. Ciro Vitiello si mostra in tutta l’ampiezza del suo territorio interiore, fatto di travaglio e di tormentato stupore, di abbagli e consapevolezza, di apparenti sondaggi all’interno della propria esperienza di vita che direttamente si connettono alla matrice profonda del suo verso. Invece che interpretarla egli la determina, la parola, in una scrittura ampia e ben dosata nei dettagli, che sa ottenere un esito compiutamente e felicemente raggiunto a mezzo di un lessico visivo, sofferto, senza essere mai destabilizzante, vigile, maturo, fruibile in tutta l’ampiezza del contenuto metaforico e dell’apparato correlativo, attraverso adeguate e trasfigurative rappresentazioni.
La scansione e il ritmo sono l’antefatto di una sigla letteraria perfettamente autonoma che sa variare la scrittura a seconda delle circostanza e delle esperienze, evidenziandone una puntuale e acuta totalità d’intermediazione tra i vari elementi. Colpisce di questo autore la grandiosa e sapiente modalità di concatenazione che avverte in profondità un rapporto privilegiato con la poesia, e ne sa conquistare l’anima mundi, ne sa estrapolare e agglutinare l’esemplificazione verbale, attraverso il gioco interferente dei raffronti delle componenti lessicali, aprendosi all’indagine a 360° per approfondire le dinamiche delle immagini, donarsi alla vita con tutta la carica ontologico/ sperimentale che ne moltiplica la potente e definitiva sintassi espressiva. Si evince la compostezza del verso che riproduce in motivazioni vaste e ben delineate le istanze amorose più intime, così come quelle sociali, morali, coniugandone l’archetipo della pagina con le modalità delle diversificate sinergie liriche. “Quando il sole taglia il viso e s’inerpica sugli aranci,/ tu non fingerti eco di pene, ma rivèstiti di luce, Jole-/ circoscritta di grazia nella bionda chioma”. (pag.30, Todestrieb).
Vi è in tutta la produzione lirica di Ciro Vitiello ben delineata la configurazione allegorica che si mostra ad un andamento costitutivo dell’io e del noi, una formula felice che contempla l’esistenza di un altrove, di un abbinamento tra noi e il Nostos, tra l’impianto erotico e la vita, tra il bene e il male, tra la verità e il dubbio. Ben individuati sono i raccordi e le concatenazioni di pensiero che cercano il congiungimento metafisico con la realtà circostante, trepidanti giochi di solarità appaiono certi enjambement, certe controversie che detengono andamento di narrazione, nella cangiante partitura delle accensioni testuali.
L’invenzione immaginifica resta sempre alta e presuppone un’astrazione di riverberi talvolta abbrividenti, altre solari: “Mi fonde alla luce la soave luce/ del crepuscolo” (Riflesso magico e anche in Ripiegamento).
Molto ben costruiti questi versi che sanno coniugare stratificazioni e significati di una introspezione non secondaria, che si ricollega al processo mentale attraverso la scomposizione degli elementi di saldatura: “ Dissolversi è destino, ma basta una sillaba, /una sola, perché il tempo si ripeta e duri! //...// dissipo le fervide vocali, sfioro l’amaro/ istante, ritaglio le forme del nostro fiato per incidere” (Dissolversi è destino).
Notare il continuum tra la simmetria dell’insieme e la rarefazione di certi stadii preesistenti, la quasi vivisezione, che determina la scissione delle istanze simboliche e la trasfigurazione concettuale si articola dalla proiezione dell’io stesso dall’altro di sé nell’imperturbabilità mimetica della ragione antinomica che s’instaura, tra la verità e il suo nulla, in cui si dibatte l’io indifeso quando dall’assenza riformula la coesistenza del riscatto liberatorio, per superare l’analogismo della perdita e la dimensione morfologica metastorica del logos, dei simboli.
Vitiello è senza dubbio una voce ampia e forte nel diorama della poesia del secondo Novecento perchè la concrezione si avvale di procedimenti linguistici che sono percettivi e ispirativi di tutta la sua soggettività individuale.

Ninnj Di Stefano Busà
                                                                                                      

domenica 28 ottobre 2012

Bianca Madeccia e le sue "variazioni sul buio"


C'è un respiro cosmico, che avvolge tutto l'universo nel cui centro c'è l'uomo, in questi versi possenti e nello stesso tempo delicati, quasi volatili, di Bianca Madeccia. Una poesia, la sua, che va oltre ogni schema precostituito, ma soprattutto una poesia che innalza, e che sa fondare sulla parola e sull'immagine la sua potenza espressiva.
Proponiamo qui alcuni testi della poetessa, tratti dalle raccolte "Variazioni sul buio", "L'acqua e la pietra" e "Registro delle perdite", chiedendo ai nostri affezionati lettori di aggiungere qualche gradito commento.



Senza fine né un inizio
costantemente scagliata in differenti direzioni
la punta della freccia mostra
che da un punto all'altro del mondo
ogni azione, direzione e possibilità
di ogni momento, di sempre,
è solo un'altra deviazione temporanea degli eventi

(da “L’acqua e la pietra”, Lietocolle 2007)

*

Canto con i tuoi petali in gola
signora del sentiero, antitesi del giglio
vetro che vibri di tutti i suoni del mondo
nuvola che appare sulle città maledette
legno che presiedi i patiboli
ferro forgiato dai lampi
o rosa mistica
preserva la nostra voce
non restituirci
alla bianca sequenza delle ore morte
rendi fertile questa miseria
insegnaci una lingua
che questo secolo comprenda
oppure che termini ora il cantico
perché non ha più senso
questo monotono lamento
torni dunque il silenzio
a bruciare come il sale

(da “Variazioni sul buio”, Edizioni Contrasto 2009-10, edizione in e-book Nsf  2012)

*

Non mi perdo nell’oppio delle forme
nel bianco abisso l’esattezza è traccia
Filare, recidere il sudario quotidiano
un lino bianco che è poema per sepolture
dove ogni ornamento è crimine
Per ogni chiara scelta che s’annuncia
ce n’è una di segno opposto che io annullo
La mano decide, la falce precede e taglia
Tratteggio planimetrie, ragnatele tenaci
barche sconfinate dal luogo a loro destinato
vasti, intricati continenti percorsi da segni cristallini

(da “Variazioni sul buio”, Edizioni Contrasto 2009-10, edizione in e-book Nsf  2012)

*

Nello splendore bianco che riluce
nella goccia di latte vegetale
nell’avorio stanco dei lunatici
nel fervore degli erranti che non cercano di invertire la rotta
nello sguardo che trattiene lo slittamento dei ghiacciai
nelle acque avvelenate
nei climi maligni
nell’affanno rauco di chi non si separa da certi giorni certe ore del passato

Nel nero della terra
nella quiete delle anime impure
nel vasto disordine di acque

nelle litanie indecifrabili mormorate con voce sorda e spezzata
nell'ostinato vangare e rivangare l’orto logoro delle concessioni

pressando certi neri materiali nelle zone fragili della coscienza
oscure sostanze fermentate fatta di silenzio a cui risponde solo silenzio

ovunque e in tutto questo, da una città cinta da alte pietre
scavo scruto scrivo cerco ogni giorno in ogni lingua del mondo
un alfabeto che mi insegni della reputazione degli alberi
della misura della grazia di una nuvola antica
dei labirinti duraturi e luminosi dell'aria e delle acque

( 2012, dalla raccolta “Registro delle perdite”)

Bianca Madeccia, giornalista professionista, dal 1990 al 2002 è stata redattrice di “Avvenimenti” (ora Left) dove, tra le altre cose, è stata responsabile dell’inserto letterario Avvenimentilibri.
Scrittrice e ricercatrice visiva è autrice della raccolta poetica L’acqua e la pietra (Lietocolle), di Tempo plaquette d’arte a tiratura limitata con fotografie di Carlo Porrini (IlFiloDiPartenope), Dei tre modi del camminarti (Collezione di sabbia, FiloDiPartenope), di Variazioni sul buio, di Àncore stellari, edizione d’arte numerata (in collezione privata depositata presso il “Museo di Ronsard”, Tours, Francia, 2011) e di videopoemi  (alcuni visibili su youtube) che sono stati presentati in festival e rassegne di poesia italiana contemporanea.
Vincitrice nel 2010 della 25° edizione del premio nazionale di letteratura “Libero de Libero”, nel 2007 del premio nazionale “Fonopoli” con l’installazione di poesia visiva “Tessere il silenzio”, nel 2006 di “Culturexpress” premio nazionale della Fondazione Eni Enrico Mattei.
Nel 2009 il suo poemetto “Elektra.Digital.Suite. Quattordici scenari digitali e cinque quadri analogici” è stato selezionato per la finale della manifestazione internazionale “Forme uniche di continuità nello spazio” e musicato dal compositore polacco Jakub Polaczyk.
Suoi testi (poesia e microracconti) sono presenti in numerose antologie, tra le principali: “Fotoscritture” (Lietocolle 2005), “Stagioni” (Lietocolle, 2007), “Roma verso Milano” (Lietocolle 2007), “Albergo Europa: camere comunicanti”, (Fondazione Eni Mattei, 2007), “Verba Agrestia” (Lietocolle, ed. 2008, 2010), “Mundus. Poesie per un’etica del rifiuto” (Valtrend Editore, Napoli 2009), Carovana dei versi. Poesia in azione, (Abrigliasciolta, ed. 2009, 2010, 2011), La Settimana della Lingua italiana nel mondo, IX edizione, (Melbourne, 2009) a cura di Rosaria Lo Russo, Registro di Poesia N.3 (a cura di Gabriele Frasca, edizioni d’If, 2010), Il segreto delle fragole (Lietocolle, 2011 e 2013). Tra le sue pubblicazioni, il primo “Dizionario sessuato della lingua italiana” (Elettra Deiana, Bianca Madeccia, Marcella Mariani, Silverio Novelli e Edgardo Pellegrini ed. LIE, 1994). E’ stata inserita nel volume “Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (2006-2011)”, a cura del poeta e critico Stefano Guglielmin. Fa parte della Sil (Società delle letterate italiane).
Sue poesie, racconti, saggi e articoli sono stati pubblicati sulle riviste: Poesia di Crocetti, La Mosca di Milano, La Stampa, Ellin Selae, Ctonia, FemminartRewiev, Mangialibri e sui lit-blog e riviste letterarie presenti sul web: La dimora del tempo sospeso, Viadellebelledonne, Vico Acitillo, La poesia e lo spirito, Nazione Indiana, LucaniaArt, Blanc de ta nuque, Poesia 2.0. In radio suoi testi sono stati presentati a RaiRadio1 (2007) a Zapping da Aldo Forbice e su Rai 3 Suite (2010) da Nicola Campogrande.
Cura in rete “Epitaffi in video” un canale di videopoesia e reading d’autore.
Ha partecipato e partecipa a reading dal vivo in festival e rassegne in ogni parte d’Italia.
Dal 2008 è direttrice artistica del Festival nazionale di poesia contemporanea “Silenzi in forma di poesia” rassegna inserita nel “Maggio Sermonetano” (Sermoneta, Lt), manifestazione che ha cercato di portare alla luce voci, stili, generi, tendenze attualmente presenti nei cantieri della poesia italiana contemporanea.
Si sono occupati del suo lavoro: Angelo Favaro, Aky Vetere, Fortuna della Porta, Franco Vivona, Annamaria Ferramosca, Giovanni Nuscis, Ivano Mugnaini, Luciano Pagano, Mimmo Grasso, Leone D’Ambrosio, Cristina Contilli, Raffaele Piazza, Daniela Raimondi, Victoria Surliuga, Giorgio Bàrberi Squarotti, Maurizio Cucchi, Francesca Mazzucato, Giacomo Cerrai, Gian Paolo Grattarola, Roberto Bertoni, Giuseppe Napolitano, Sergio Zanone, Luisa Pianzola, Antonio Fiori, Stefano Guglielmin, Maria Grazia Calandrone.






venerdì 21 settembre 2012

La "Cronaca dal Midwest" di Gerardo Pedicini

Cronaca da Midwest è una recente breve piacevolissima silloge composta da Gerardo Pedicini, in cui si alterna la pregevole traduzione in inglese di Manuela Batul Giangrande.
Si tratta di versi che rievocano il grandioso paesaggio americano, con note riflessive sugli stati d'animo da esso suscitate, lungo il viaggio, e qualche nota di nostalgia. Un linguaggio, come sempre, solido nella costruzione e nel progredire, quello di Pedicini, che con piacere proponiamo nuovamente in questo blog, per altri interessanti e graditi commenti da parte dei lettori.


I.

Ad una svolta, improvvisa l’ansa del fiume.
“È il Mississippi”, disse James.
Il fiume pareva fermo come un lago.
Il bridge lungo più di un quarto di miglio.
Oltre il ponte
la strada riprese a correre
tra distese di soia e di granturco.

Si viaggiava in un continuo rombo
di motori. Le windmills segnavano
il passo del tempo. Erano una mandria di draghi
in fila lungo la linea dell’orizzonte. “Questa è l’America”. James,
il taciturno, parlò come mai aveva parlato.
Mi parlò delle aquile che rotano alte nel cielo,
degli antichi amerindi Iowa, del Mormon Trek
e di Cedar Rapids distesa come una donna
nel letto del fiume.

La sera avanzava col vento
che radeva le cime degli alberi
come una gigantesca mower.

Fu subito notte. E nel buio
si accesero a migliaia fuochi vicini lontani.
Viaggiavo come chiuso in un hangar volante,
sospeso in un nido di vespe
nel blu silenzioso della notte.

Fu allora che pensai al mio paese
e alla festa di S. Rocco che è come
uno scoppio di melograno maturo
nel cielo acceso di speranze.

I.

At a turn, sudden the bend of the river.
"It's the Mississippi," James said.
The river seemed as still as a lake.
 The bridge long more than a quarter of a mile.
 Over the bridge
 the road resumed to run
 among expanses of soybean and maize.

One travelled in a continuous roar
 of engines. The windmills marked
 the passage of time. They were a herd of dragons
 lined up along the horizon. "This is America." James,
 the taciturn, spoke as he had never spoken.
 He spoke to me of eagles that twirled high in the sky,
 of the ancient Iowa Amerindians, the Mormon Trek
 and of Cedar Rapids stretched like a woman
 in a river bed.

The evening advanced amid the wind
 that shaved the tree tops
 like a giant mower.

Soon it was night. And in the dark
lit thousands of fires near far.
I travelled like closed in a flying hangar,
suspended in a wasps' nest
in the blue silence of the night.

It was then that I thought of my country
and the feast of St. Rocco that is like
a burst of ripe pomegranate
in the sky lit up with hope.

II.

Al mattino fui nel Nuovo Mondo
“ove nessuno può entrare senza il permesso di Dio”
come ebbe a scrivere Cristoforo Colombo
nel diario del suo terzo viaggio.

Ero come disperso in una distesa di case e giardini,
perduto come rondine senza nido. Giravano
a frotte nell’aria in cerca di cibo.

“Sono due mesi che non piove”, disse Michael
seduto al volante come un comandante sulla tolda della nave.
Le roads salivano e scendevano dai dossi
come acquatiche anaconde.
L’aria era una apple freeze dried.
Il Capitol un peanut butter alzato al cielo.

D’improvviso il cielo diventò
una nera coperta bagnata 
e venne giù la pioggia battente.
La terra scivolò in un mare di foglie e fango.

Dietro i vetri della tipografia di Sara,
nel profumo d’inchiostro
e tra le rose del quadrante
del libro di Shakespeare,
io ero come a casa
e per me fu come un miracolo
specchiarmi nel fiume Iowa
con la luna che si alzava dietro il ponte.

(Luglio-agosto 2012)

II.

In the morning I was in the New World
"where no one can enter without the permission of God,"
 as Christopher Columbus wrote
 in the diary of his third voyage.

I was as if lost in a sea of houses and gardens,
astray as a dove without a nest. They turned
in flocks in the air in search of food.

“It’s two months that it doesn’t rain,” said Michael
 sitting behind the wheel as a commander on the deck of his ship.
 The roads ascended and descended from the mounds
 as aquatic anacondas.
 The air was an apple freeze dried.
 The Capitol a peanut butter raised to the sky.

Suddenly the sky became
a sodden black blanket
and down came the pouring rain.
The earth slid into a sea of mud and leaves.

Behind the windows of Sarah’s typography,
in the scent of ink
and among the roses of the face
of the book of Shakespeare,
I was like at home
and for me it was like a miracle
to be mirrored in the Iowa River
with the moon that was rising behind the bridge.

(July - August 2012)

III.

… e il giorno dopo e l’altro ancora 
le grafie dei rondoni nell’aria
e dal muro di piante all’orizzonte
tornò il vento a radere l’erba
come un’onda.

Il diluvio era passato,
ma non la paura.

Seduto sul deck
respiravo assorto
la luce del mattino
come le donne di Hopper.

Di colpo fui con Paul Austen
per le vie di New York:
ero un’ombra
nel fogliame dei palazzi
affacciati su Riverside Park.

“Questa è l’America,”
mi ripetevo come in sogno.
E nel sonno, assordante, mi giunse
il rombo di mille e mille aerei in volo
e il rumore sordo delle bombe a terra.

Piangevo come un bimbo
sperduto in mezzo a una nuova guerra.

Mi svegliai a mezzo il giorno
con l’odore del latte cagliato
che arrivava dalla farm degli Amish a Kalona.
“Anche questa è l’America,
forse più vera e migliore dell’altra”,
mi dissi scotendomi di dosso
le ombre del mattino.

Me ne andai allora
a rinfrescarmi alla fontana dello Sheraton
e all’ombra del Solar Marker ritornai
a essere me stesso.

III.

… and the day after and yet another
the writings of the swifts in the air
and from the wall of trees on the horizon
returned the wind to shave off the grass
like a wave.

The deluge had passed,
but not the fear.

Sitting on the deck,
I breathed immersed
the morning light
like Hopper’s women.

Suddenly I was with Paul Austen
along the streets of New York:
I was a shadow
in the foliage of the buildings
overlooking Riverside Park.

"This is America,"
 I repeated like in a dream.
 and in my sleep, deafening, came
 the roar of thousands and thousands aircrafts in flight
 and the thud of bombs on the ground.

I cried like a child
lost in the midst of a new war.

I woke up at half the day
with the smell of sour milk
that came from the Amish farm in Kalona.
"Even this is America,
perhaps truer and better than the other, "
I told myself shaking off
the shadows of the morning.

I went then
to freshen up at the Sheraton fountain
and in the shadow of the Solar Marker I reverted
to being myself.

IV.

Nel frastuono di lingue sconosciute
vado avanti e indietro come un pendolo:
Clinton Street 100 – Washington Street 10
Dubuque Street 100 – Iowa Avenue 10.

Mi sembra d’essere
tornato bambino
e di perdermi (nel gioco
dei quattro cantoni
son restato sempre fuori,
come adesso a Iowa city).

Altro non c’è che questo andare
nel girotondo delle strade
dove non sai se sei solo
anche se incontri
una fiumana di giovani
che con gioiosa cortesia
ti saluta festante
con sempre la stessa cantilena:
“Hi!” “Hi!” “Hi!”
a cui risponde
il mio stanco: “Hi!”

Come è lontano il tempo
quando il tempo era sempre uguale,
e come erano amari gli anni
che ho disseminato
nel campo di ulivi attorno casa!

(Iowa, 29 – 31 agosto 2012)

IV.

In the din of unfamiliar languages
I go back and forth like a pendulum:
Clinton Street  100 - Washington Street 10
Dubuque Street 100 - Iowa Avenue 10.

I feel as if I am
a child again
and that I get lost (in the game
of four corners
I always remained outside,
as now in Iowa city).

There is nothing else but this going
in the ring-a-ring-a-roses of roads
where you do not know if you're alone
even if you meet
a torrent of youngsters
that with joyful courtesy
greet you joyfully
with always the same chant:
"Hi" "Hi" "Hi!"
To which you respond
with your tired, "Hi!"

How far away is the time
when time was always the same,
and how bitter were the years
that I scattered
in the field of olive trees around the house!

(Iowa, 29 - 31 August 2012)

V.

Dopo il mio lungo girovagare
in questa Babele del Nuovo Mondo,
mi siedo sull’erba
all’ombra del Liberal Arts .

L’erba è arsa dalla pioggia
e odora di mele marce.

Mi distendo al sole
che mi piove addosso
come uno straccio consumato.

Nel sacco che mi porto dietro
ritrovo le mie poche cose:
un libro di James Thurber,
la vita che in un fiato se ne è andata,
l’aspro sapore dei ricordi fatti fango,
gli amici lasciati, gli amori perduti...

Che sia anche per me l’ora
di arrivare alla soglia
e dire addio alla vita
che è finita come un niente?

(3 settembre 2012)

V.

After my long wandering
in this Babel of the New World
I sit down on the grass
in the shadow of the Liberal Arts.

The grass is burnt by rain
and smells of rotten apples.

I lie under the sun
that rains down on me
like a worn-out rag.

In the sack that I carry around
I revive my few things:
a book by James Thurber
life that in one breath has gone,
the bitter taste of memories become mire,
friends left behind, lost loves...

Is it time for me as well
to reach the threshold
and say goodbye to life
which ended as a nil?

(September 3, 2012)

mercoledì 19 settembre 2012

Patrizia Cremona e i suoi "Sostantivi dell’inverno"


Un desiderio di apertura, di trovare spazi al di là della materialità quotidiana, di trovare o ritrovare sentimenti nell'"oro dello sguardo che sposta sole e cielo". Dare insomma una nuova sostanza allo scheletro della vita, che sia finalmente rivestito di autentica passione e non soltanto di "ombre" e di "nebbie" vaghe e informi. "Sostantivi dell'inverno" mi sembra titolo indovinatissimo per questa breve silloge inedita di Patrizia Cremona, salernitana, nuova rivelazione poetica che l'amico Mario Fresa ci ha sapientemente proposto, e per questo lo ringraziamo. Ci rivolgiamo ora ai nostri lettori per qualche altro gradito commento in proposito.

Sostantivi dell'inverno
(inediti)

*
Lo spazio ricama gli scontri, e la notte non esiste:
ritarda l’oro dello sguardo che sposta sole e cielo;
questa mia pelle, vedi, provoca pioggia
e disattenzione.

*
Sembra che piova e te lo immagini soltanto.
Così, se lo ricordi, il pensiero
del cielo si trasforma nel povero
inventario delle attese:
«qualcuno ci ha lasciato; neanche tu,
nemmeno io, ci siamo accorti mai di nulla…»
[…]
Le mani, perciò, si perdono
nella confusa
convenzione del mondo.
Qual è la vera forma di questa nebbia calda
che si ripete e poi scompare,
proprio adesso, davanti agli occhi tramortiti?

*
Le notizie degli ultimi istanti hanno ceduto,
rovinano nell’orma dei solenni
passi lunari.
La fiamma è ricaduta sul volto
di questa notte obliqua, e insieme sotterriamo
le segrete, le severe parole
dell’inverno.

*
E appunto nelle rose dell’aria tu mi perdi:
e nella lama dei nomi abbandonati
poi mi ritrovi.

*
L’ombra ci appare interminabile: qui, dietro di noi,
già lentamente vive l’idea finale di salutarci, di concludere l’attesa:
già si consuma nell’aria, e ci profila il suono opaco
delle gore invelenite, la povera promessa dei temporali
che sono così vicini, ascolta,
al nostro corpo.

*
La notte riempie la mia beatitudine e sono
imprigionata qui, senza rimedio.

Patrizia Cremona è nata a Salerno nel 1976. Ha pubblicato "La distanza dell’aria" (litografia di M. Vecchio, Edizioni d’arte L’Arca Felice, 2011).





lunedì 10 settembre 2012

Ninnj Di Stefano Busà su "Il ragazzo che io fui", di Sergio Zavoli


Un viaggio lungo la vita, quello di Sergio Zavoli, che nel narrare la sua avventura personale ed esistenziale coglie a 360° tutto il panorama attuale della nostra epoca: ribelle, fatua, dedita all’utile, all’interesse, contraddittoria, votata all’automazione visionaria di un vivere ai margini della vita stessa, non più all’interno, non da protagonisti, ma da controfigure di noi stessi.
Il nostro periodo storico riflette molte mancanze, dà segnali di uno scenario disabitato dalle coscienze, dalle emozioni, dai sussulti intimi.
Tutto è dilacerato e mercificato, ustionato, reso inagibile da una sorta di ridimensionamento frustrante, passivo, azionato da conflitti e da contraddizioni ineludibili, che spesso cancellano ogni traccia di umanità, di intelligenza e di bellezza.
Il mondo è in subbuglio, ma è un disorientamento, uno smarrimento da perdita di contatti reali, da amnesia, da abuso di stravaganze.
Il tempo dell’informatica, dei canali satellitari, dell’usa e getta, del superfluo, si è rivelato un “mostro” raccapricciante che ingoia i suoi cultori.
Camuffato da necessità vi è il “nulla”. La vita non è più irrorata da bellezza, da verità, dal sogno, ma è azionata da una sorta di idrovora che disattiva ogni ragione di “normalità” intesa come raziocinante. Tutto è eccesso, esaltazione dell’ego che dà e, in contemporanea, nega ogni sorta di bene.
“Una contraddizione in termini”, quasi letale, ha invaso le vie della nostra spiritualità, le condizioni morali più qualitative dell’uomo, quelle che portano all’intelletto e al cuore.
Così, l’amarcord di Sergio Zavoli è una riflessione mirata alla comparazione tra due mondi opposti che appaiono due "epoche", ma invece si riferiscono a “ieri”. La vita quotidiana, gli stili, le consuetudini, i sentimenti, tutti annullati nel breve volgere di una generazione, la “sua”: uno scempio di ciò che eravamo e quel che “siamo”.
Paradossale la distanza tra i due “modus”, perché risente di una nostalgia contenuta che riprende l’assenza quasi totale dell’emozione.
Un primo attacco ci viene dal razionalismo “ante litteram” del secolo scorso nel quale i valori venivano messi da parte, per dar spazio alla concezione nietzschiana del super-io. Una forte tendenza a porre in evidenza l’ego al posto del plurale “noi”.
“Il ragazzo che io fui” è un’opera che dovrebbe essere adottata nelle scuole.
Ha il tono didattico, non accademico né sentenziale, senza indottrinamento, scritta sul filo della continuità logica, si avverte il senso dell’umanità ferita e dolorante, la quale può mutare col “ravvedimento” il destino delle cose e del mondo.
Pensare con l’obiettivo dell”utile” è stato il modo meno ontologico e più irresponsabile di vivere.
Perciò, Zavoli vi affonda a piene mani e ci dà il responso del suo parere, che nel riflettere il senso del disordine morale e sociale ai quali siamo giunti, ci indica una via di riscatto, un ripensamento, forse una salvezza “possibile”.

"Il ragazzo che io fui", di Sergio Zavoli, Mondadori, 2011

Ninnj Di Stefano Busà

domenica 9 settembre 2012

Il poeta Nader Ghazvinizadeh in una nota di Narda Fattori

Con questo articolo iniziamo una nuova rubrica, intitolata "Gli Ospiti", dedicata appunto agli Autori che vorranno presentare commenti, osservazioni, note critiche, recensioni, su altri poeti.

Presentiamo dunque qui di seguito il poeta Nader Ghazvinizadeh, in una nota critica di Narda Fattori.


Nella città è sempre notte
scrosci di gente nera sotto le piogge
maschi da vaporiera femmine di stireria,
la città scotta, fucina di febbri
neoavanguardie e noi, nel parco urbano abbandonato
come l' abbraccio di un parente di secondo grado
noi siamo ricchi, vestiamo un po' bene
un po' male come i tartufi
sapendo di terra e di cane 

 
(da "Metropoli", poesie, di Nader Ghazvinizadeh, a cura di Sergio Covelli. Edizioni cfr - poiein)

E’ l’opera che ha vinto il 3° premio al concorso Fortini indetto da Gianmario Lucini e edito dalla sua nuova casa editrice. E’ una poesia compatta, sapiente e dura. Dura quanto sanno essere le metropoli con la gente che ospitano, immigrati per la maggior parte, contadini inurbati, ora operai, impiegati, una piccola borghesia che non ha più orizzonti, che ha smarrito i sogni di rivincita sociale e/o culturale, molta solitudine, lo squallore delle periferie, con i bar affollati dove l’alcool aiuta a sopportare la proterva fila dei giorni tutti uguali.
La metropoli ruba più di quello che non offra: ognuno è chiuso in una solitudine aspra e dolente dove anche i ricordi sbiadiscono e l’identità si assottiglia fino a scomparire quasi e allora si ha bisogno di gesti e comportamenti “forti”, deviati o devianti per recuperare un sé che scolora.
L’autore, malgrado il nome non proprio italiano, in realtà viva e lavora in Italia, a Bologna; si occupa di cinema, di musica e di urbanistica, di microcriminalità adolescenziale, di rapporti fra questa e i grandi casermoni urbani, i moderni falansteri.
Ne ha scritto su quotidiani e riviste, ne ha parlato per radio.
Ovviamente la materia dei suoi interessi intesse questa opera di poesia matura, dove l’ispirazione è sempre sorretta da uno sguardo lucido, ma anche pietoso, sulla moltitudine; infatti la scinde, ne estrae il singolo e sappiamo che l’uno è riconosciuto e riconoscibile, è unico e non assimilabile.
Di questo riconoscimento è fatta la pietas di Nader.
Il suo dettato scarno, molto vicino al parlato anche per le numerose ellissi, riproduce il linguaggio di coloro di cui parla, scabro, senza o di povera sintassi, povero di parole; le parole di questi inurbati sono quelli della sopravvivenza, di qualche ricordo frastagliato, di un dolore che fatica a chiamarsi tale.
Fra le parole che ricorrono più spesso ci sono, ovviamente, città, alcool, caffè, bar.
C’è l’illusione dei colti, di coloro che hanno studiat , si sono impegnati e si ritrovano inutili o a fare “letteratura”.
Le nostre città che gareggiano a dirsi e a farsi metropolitane, non ne escono troppo bene; tutti i mali sono nei suoi milioni di abitanti, stretti fra esasperazioni, vaghezze di suicidio, incapacità o impossibilità di relazione, pochezze sempre.
Fa rimpiangere la provincia questo libro di Nader, le sue piazze pettegole, i gruppetti dei giovani appollaiati sul monumento ai caduti, i bar affollati di vecchi che giocano a carte e di più giovani che parlano di sport o di donne.
Ma un poeta si misura sulla tenuta della sua poesia; qui il poeta c’è e tiene saldamente il ritmo e il tono della voce, mai un grido, mai un lamento.
La lingua e la parola (in fondo la poesia è parola che si riempie di senso, che contiene una significanza ampia ma condivisibile o proprio per questo condivisibile), dicevo la lingua e la parola si piegano alla signoria del suo dettato e fanno di questa silloge un piccolo capolavoro di poesia.

Narda Fattori

Metropoli

Livido e plumbeo è, invece, il nostro vestire in città
umido, che viene voglia di mettere le mani in tasca e stringere le spalle
e addormentarsi
nella cesta, come dormono le bestie
grattacieli come i sottomarini
città piromani, vetri rotti
slavate dalla pioggia, città, sfumate nella nebbia 

***

Stanno costruendo il nuovo quartiere
i geometri nel monolocale guarderanno l'orizzonte ortogonale
dove l'angoscia si scioglie in inquietudine
e si risolve prendendo da bere
nel bar vuoto
sarà il barista nuovo che viene da lontano
a cucinare per gli impiegati
e sarà mezzogiorno a Febbraio
nei caseggiati nuovi, ancora con la sabbia
ed in fondo la cifra vuota
quella luce delle fotografie
del pomeriggio delle ombre lunghe
ci hanno visti la prima volta
nel seminterrato dove tremano i passi
non so perche ogni giorno vai nella stanza vuota
da una finestra la cifra da immaginare
dall' altra parte il mare 





 
***

Al ramo morto, dei barconi insabbiati
noi non volevamo andare al mare,
ma risalire il fiume al primo campanile
in mezzo al fiume c'e il paese con le piazze al vento
quando si perde l'argine maestro,
Lì si esce nel mare muto, che è già mare aperto
si perde anche il fiato, viene paura ascoltare la radio
che parla delle navi e degli altri mari
viene voglia di tornare indietro
come per cena, e noi ci perdiamo nei bicchieri d'acqua 

***

Porterò mia figlia in piscina
ascolterò dalla grande vetrata le voci ovattate
pensando ogni tanto alla sua voce
il tuffo la inghiotte
la figlia fa finta di niente
penso che ho avuto una femmina
e sembra di guardare un passato
la figlia non sa che andrà a Roma senza un pensiero
qui finisce il futuro 

***

Si beveva il vino nelle pause pranzo
nell'orlo del mezzogiorno
nella trattoria dei capomastri, degli impiegati
mentre i colleghi nei giardini pubblici intrattengono le amanti
le cuoche nei refettori, e dietro i muri,
i  cortili dei collegi deserti per le mense
dei bambini profumati di amido da stiro
e noi vestiti da lavoro, è bello pagare. 


***

In fondo alle strade tonde
c'era il nero d'Avola, c'era il mal di gala
sono vestiti anche bene e bevono
han come già detto tutto
"Questo posto porta indietro il cuore a dove 1o hanno fatto"
le parole sono tonde
un posto di ombrelli, pochi coperti, grandi dessert
ottocento / occidente
c'era il tabacco morbido, c'era il vino torbido
insonnia/ amnesia
han lasciato tutto com'era
immensa la cultura degli abiti da sera. 



***

Nei caffè, lontano dai prati
pensavamo per ore
pensavamo, fumavamo quando si poteva
dopo l'ultima città, soltanto neve
chi parla alla radio in Germania
sembra un uomo solo in una stanza
siamo emigranti, siamo colti
sappiamo il mal di testa di non farsi capire
di essere eleganti, di vestire male
e di bere caldo. 

***

L'uomo solo che vive nella casa al mare
la casa aperta, di calce
sul viale per Pomezia un progetto di lungomare
viene in città una volta al mese
e attento a non portare la sabbia in casa
la casa senza porta
dorme il giorno sul letto sfatto
a guardare il mare con il rasoio in mano 

ci sono bottiglie sulla credenza
l'estate la notte e come il giorno
il mare annoia, e sempre uguale
il discorso che fa sulla riva
il mare è come il cielo grigio
non c'e voglia di tuffarsi
l'uomo si tuffa con muto coraggio, nuota male
esce nel mare
lontano dalla riva, dove sono le boe
i pesci ed il silenzio sott'acqua
torna sempre come un'angoscia
io osservo il suo muto tornare
il passo del nuoto sempre uguale

***

Si risale la terra dei monumenti gelati
arcani come carri armati i municipi
siamo venuti via con la ghiaia in tasca:
Valle Bembo, Valle Bormida il sigaro fa l'acqua vite torbida
riconosci la tua marcia nella città contraria
i tagli di falce, i cambi di guardia
gli amici di scuola miete la mitraglia
la morte è in campagna. 





venerdì 31 agosto 2012

Bruno Bartoletti: sparire in silenzio

Abbiamo già pubblicato giorni fa alcuni interessanti testi di Bruno Bartoletti. Lo riproponiamo una seconda volta, su gentile richiesta di Narda Fattori, che ha scritto per lui una approfondita nota critica qui di seguito riportata.


Bruno Bartoletti, "Sparire in silenzio ritrovando il vento delle strade", Youcanprint.

Nel taschino l'ultimo verso
Oggi l'inferno ha altri volti, oscurità e schegge. Oltre il confine il buio.
Nella stanza il freddo chiarore di un'alba di dicembre, pareti
bianche di ospedale, la mano alla maniglia, il treno che non parte.
Attese di autobus sempre vuoti. Non c'è nessuno in giro a
quest'ora. Solo silenzio. II silenzio è una parola vuota.
Rami scarni contro il cielo, una lunga interminabile prospettiva
disadorna, attaccapanni spogli ove impermeabili grigi stanno appesi.
E' il giorno della memoria, il giorno dei santi e dei martiri,
troppo presto dimenticati. Nuvole fosche e un vento sibillino soffia sulla terra.
Solo una donna incontro nella nudità dei giorni. 

I
Stava fuori la promessa
ed era tutta raccolta contro lo spigolo
del letto, a malapena rischiarata dalla luce obliqua
del balcone,
una piccola luce, mentre tutto oscillava
e si inabissava nei perchè,
nelle ombre sul muro,
nell'acqua che continuava a cadere,
fredda e insistente come le parole su quel corpo
di lui immobile.

II
Poi ritrovarsi tutta aggrappata sul predellino del treno
sotto la pioggia, in quell'abito bianco
che pareva uno straccio, lei, il suo volto bianco,
bagliori di un corridoio d'ospedale,
i vetri dei finestrini riflessi
tutta la storia rappresa a quella maniglia,
a quella inutile presa.
Domande che non hanno risposte, tutte
nel silenzio, quando muoiono i giorni
e ancora non sei pronto
mentre già l'altoparlante annuncia: 

- E’ in partenza dal binario numero 24 ... -
Leggere ancora, per non dimenticare, leggere nel silenzio.
Oscilla l'ultimo verso, il viandante si allontana, di profilo la sua
ombra e un taglio di luce, non ha forma. Procede.
Sibila il vento sui rami disadorni.
Le parole si inseguono come tagli di scure, come i numeri
sull'avambraccio. Solo numeri. Non ricordo nient'altro. La bam-
bina aveva scarpette rosse e un abito bianco e occhi grandi.
Riccioli biondi.
Non è cosi che si deve partire. II camion è pronto. Mi hanno spinto
per farmi salire, mi hanno buttato come un attaccapanni, abito
grigio, scarpe afflosciate.


Nel taschino l’ultimo verso di Invictus

Avanza rapido il giorno ed è un giorno che non ha mai fine.

Una stanza d'albergo a due stelle,
la luce scarna sulle braccia
e lei che tossisce
vicino alla stazione
in un sottopassaggio
ho girato l'angolo senza chiedere nulla
ho disceso le scale
e ho aspettato l'arrivo dell'ultimo autobus.

*

Una vecchia Guzzi e mio padre
- mi sembrava un gigante - sui tornanti.
Mi diceva indicando uno spicchio più azzurro
tagliato lontano tra i monti:
- Vedi? Quello laggiù è il mare -.
E aveva un limpido riso da buono
mio padre che appena conobbi
e risento quel dolce sapore
di azzurro tagliato tra i monti.

La vita si inerpica a volte si sfascia,
ma restano sempre i più dolci
ricordi.

 Le mani che cercano  l' ombra.

*

Ancora quel suono, quel suono
che taglia la notte recide oscure memorie.
Un’auto o una moto che ingoia nel buio la strada
un giovane forse che torna o che si allontana.
E vado pescando ricordi dei tanti
compagni di viaggio, dei tanti da tempo già scesi
in qualche perduta stazione.
Li conto a memoria, non manca nessuno,
l'amico più caro ancora sorride.
E’ tardi
La  notte ha un sapore di cose lontane.

*

Se appena nel soffio questa foglia,
forse un poco sbeccata per le troppe
battaglie, svenata appena, è ancora
sospesa al tralcio
questa foglia che vede, già vede
tramutarsi il colore e le sue vene
seccarsi
e già si gode il lento, ondeggiante
cadere, già si sveste di ombre
dopo tanti, oh sì tanti frastuoni,
che era vita la sua, e ancora trema
sotto l’acqua ed il vento ...
anch'io mi sento, non vuoto,
già staccarmi dal ramo ...
Prendimi terra, annegami, fammi tesoro
di altre forme, accoglimi non già morente,
nuovo per altre immensità, per altre vite.

*
E parlammo di te attorno ai fuochi,
nella sera suadente e sul mantello
una luna di carta per sognare
i segreti del tempo, e la tua voce
come un soffio di nuvola sui tetti a
ricordarci degli anni, dei segreti
che il tempo senza tempo ci ha lasciato.
Ora che la distanza ci allontana
saperti ancora ferma in riva al mare
con gli occhi tristi e il volto dentro il vento
mi dona questa eterna giovinezza
e il senso di un eterno raccontare.

*

Così lontana vieni a me, vengono ombre
ancora nella notte, passano accanto,
ombre lontane ed in quel suono sono
mille memorie a raccontarmi, sono
radici asciutte nella carne.
E un rombo che cresce e spegne oltre le voltate
tutti i miei anni, i compiti, radici
gli amici miei, quelli perduti o scesi
prima del tempo.
Incombono i dirupi e questa strada
si fa più scarna cruda.

*
Non so perdonarmi
di esser vissuto più di mio padre.
I padri sono forti, ci restano accanto,
non muoiono, non possono andare per altri tramonti.
Mio padre portava il piccone, sul capo la lampada,
e aveva un volto da buono, mio padre
con gli occhi lontani.
Ancora la terra non grida, chi muore
non ha che un respiro. 

Testimonianza di una età - la nostra - e di un crepuscolo, se la poesia è anche divenire e, in qualche caso, sofferenza, come dichiara l'autore nel breve saggio finale. L'incipit  e la chiusura prendono lo spunto da alcuni versi di Nicolas Bouvier, il poeta a cui piaceva cantare la lentezza, versi che Bouvier scrisse alcuni mesi prima della morte. Canto di morte, dunque, questo viaggio in un altrove diverso, e canto della vita.
«La sua raccolta di poesie mi ha profondamente emozionato: ha l'andamento del viaggio verso la tragica conclusione del tempo, fra la verifica della memoria come unico valore pur nel dolore e nella fragilità delle esperienze e del sentimento e la consapevolezza fortemente morale del mondo spiritualmente perduto. II discorso è ampio, solenne, grandioso. Ci sono testi di straordinaria bellezza, come "Nel taschino I'ultimo verso", ma tutta l'opera è splendida, altissima». (Giorgio Barberi Squarotti, Corrispondenza epistolare del 9 marzo 2012).
Nulla si può aggiungere, nulla c'e da spiegare. La poesia è soprattutto ascolto e silenzio. 


Bartoletti non dimentica di essere un poeta e di tanto in tanto ci induce a soffermarci sui versi che ha appena pubblicato. Non lo si può neppure dire prolifico: tre, quattro libri in un paio di decenni al contrario fanno pensare a quanto lasci decantare la sua scrittura che, quando appare, deve essere armoniosa, coerente, non futile né inutile.
Credo che oggi i poeti debbano porsi proprio il problema della capacità di e-ducere della poesia nell’ambito della società e non ritrovarsi a contarsi in sterili reading di un do ut des; e si potesse dire sempre poesia questa scrittura bistrattata, usurpata, spesso di poco pregio, come andare a capo prima della fine dello spazio bianco o incasellare le parole una sotto l’altra come in un elenco.
Ma quali motivazioni ha il poeta, anche il poeta Bartoletti, che pure spinge sul pedale della memoria e dell’etica?
“Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d’una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiusa a scontare.”
questo scriveva  Italo Calvino. E citando Fortini, Bartoletti fa proprio il suo incitamento: forse la poesia non serve a nulla, “ma scrivi”.
Oggi credo che vi siano poche giustificazioni per una scrittura glabra, eccentrica, talora difficile come è la poesia; non dà né pane né gloria, neppure è pace o medicina; tuttavia resta quanto di più autentico per noi umani possa essere: incontro e scambio, gratuito, non monetizzato, profezia, visione, ricordo, fondamenta dell’identità.
Nei versi ci incontriamo e ci scontriamo, e lo facciamo da sempre, da quando l’uomo ha acquisito il suo statuto di umanità. E se, come dice Federica Nightingale, “La Poesia, non si muove e quando lo fa si muove poco. La Poesia è lenta, un bradipo con ali leggere, un volto senza corpo e fatto d'occhi. La Poesia non cammina, scorre. La Poesia non parla, segna. La Poesia non paga, ri-paga. La Poesia è un collo di cigno che guarda dentro il lago e, a volte, vede il futuro.” non incontrarla ci diminuisce e ci lascia in un deserto di solitudine.
Questo ultimo libro di Bartoletti, giunto dopo anni di silenzio stampa e di attivismo culturale, si mostra come una summa della sua poetica e delle sue riflessioni intorno alla poesia.
E’ totalmente un libro di prima della fine, un libro che ascolta i silenzi; i silenzi non sono mai vuoti, sono i coacervi della memoria, le voci degli assenti, ci parlano dentro e attorno si fa una gran quiete,  ferma e attiva.
Proprio come se questo fosse l’ultimo scritto, troviamo la memoria che signoreggia nei versi, l’intelligenza che cattura le immagini e le fa parlare; credo non manchi nessuno all’appello. Ci sono i versi sui fondamentali dell’esistenza: padre e madre e, mai come in questo libro, Bruno ci parla del padre, minatore, della meraviglia di se stesso bambino davanti alla Guzzi rossa e del cruccio del sopravvissuto, lui al padre, perché i padri portano fardelli e spartiscono sicurezze che vengono a mancare alla loro prematura scomparsa.
Non mancano le figure d’amore, bozzetti incantevoli per la moglie, il nipotino, gli amici, il proprio paese, la terra aspra e poco generosa dove vive e dove è bello vivere perché ogni sasso, ogni giunco, ogni finestra conserva un passo del suo farsi uomo.
Il libro, corposo, con una postfazione articolata che dà ragione delle scelte compiute, è suddiviso in due vibranti sillogi che tuttavia non demarcano terreni semantici, ma appena tracciano solchi tematici.
La prima parte è quella che più insistentemente riflette sulla poesia e sulla parola; vengono citati poeti e personaggi fabulosi come il gabbiano Jonathan, si affidano messaggi a poeti che sono stati, poeti che sono, poeti che verranno a trattare la parola che, usurpata della verità, aspetta che le sia restituita. “ Ho scavato parole/ ricordando la luce/ e rompere il silenzio,/ sul tavolo le poche piccole cose/ di qualche straniero.”; nelle parole dunque la luce, l’uscita dal silenzio, l’uscita anche dall’anonimato dello straniero. E’ in quella luce che l’uomo può non disperare, ma anche in quel silenzio vibra un’attesa di luce.
La lunga poesia ibrida che porta per titolo “Nel taschino l’ultimo verso” ci riconcilia con la bellezza che anche una situazione di abbandono e di solitudine può conservare se tutto è in poesia, in questo caso particolarmente ispirata e fortemente espressiva. Credo che Bartoletti farebbe sua questa citazione di Peppino Impastato, non poeta ma giudice martire : "Se si insegnasse la bellezza alla gente la si fornirebbe di un'arma contro la rassegnazione, la paura, l'omertà".
Uomo di cultura, Bartoletti ha sempre cercato di insegnare la bellezza, che non sta in canoni di misure e di accenti, ma in incanti e in stupori, in cose minime e altre grandissime, in una margherita come in una galassia.
Forse non mi sono soffermata sul carattere ibrido del libro: alle tante poesie sono frammezzati pezzi di prosa, ma tutto si tiene come le foglie al ramo, il discorso non cede, non si piega ad esigenze altre ed estranee.
Dire il tanto che contiene il libro è impresa ardua. Nessuno può uscire dalla sua lettura senza esserne stato modificato.
Il poeta Bartoletti ci mostra l’uomo Bartoletti con umiltà e maestria, con candore e filosofia.
Non è facile raggiungere simili vertici; forse bisogna veramente tenere tanti anni le poesie nel cassetto e tornare spesso a rincontrarle.
Narda Fattori.





giovedì 23 agosto 2012

Marisa Papa Ruggiero e la sua "pelle di bosco"


Eleganza e tantissima sonorità, luci e colori, caratterizzano la poesia di Marisa Papa Ruggiero, presente nell'enclave poetico napoletano di spicco ma anche negli ambienti letterari nazionali di grande rilievo. La sua attività letteraria è molto intensa, con presenze assidue ad eventi di particolare pregio e importanza, ed anche come collaboratrice di riviste letterarie quali, ultimamente, la napoletana "Levania".
In questa silloge dal titolo "Nella pelle del bosco", tratta da poemetti editi e inediti, che molto volentieri proponiamo in questa pagina di "Transiti Poetici", Marisa Papa Ruggiero conferma, se mai ce ne fosse necessità, la sua ottima cifra di poetessa che pone nella parola poetica il suo grande e giusto valore, arricchendola e integrandola, come dicevamo, di aggettivazioni sonore, pittoriche e illuminanti che rendono il testo, e i versi, pregni di rimandi e di richiami.
Ma a questo punto invitiamo gli amici che ci seguono su questo blog a proporci altre interessanti riflessioni o commenti.

 (da poemetti editi e inediti)


                                 < Nella pelle del bosco >

I

(…)

Sorprende il polso l’urgenza
di spinte avverse
sfila il nervo il morbo

di una marea anteriore,
prende voce
angolare
di parvenze in viaggio
di ogni fatica d’orme
in ogni fiato o timbro che attraversa

e ne rivolta i segni
l’ordine compiuto,
la sorda fame la frattura elementare

su cui la morte veglia
                      e mette in sequenza i segni
le gole chiuse i varchi
tutti i sentieri
che la talpa conosce

i rivoli senza memoria senza uscita,
le cripte cieche 
della terra
le vie sacre.
                   
(da: Spartito fossile, poemetto inedito)


II

Sottratta al suo silenzio
scorre e guarda, qualcosa
che si stacca

e muta in estro
                               là dove l’acqua non specchia,
che torna e cresce, che altrove
mi precede
           - fondo moto di sé srotola in tondo -
frammento rinato
e traslato che prelevo
alla mia fibra:
                    non corpo
                                      non voce,
è un passo che nasce dal buio
che s’acqueta di selve,

da questi occhi
ha appreso la lotta,
questi occhi che mettono radici

come piante che si capovolgono
nell’acqua
                                               per tali vie
c’intendiamo
scorriamo in lente trasfusioni
con l’aria e l’acqua e tutti
gli elementi in comune:
queste vene che sembrano rami
che sono
                       steli e stami,
che mettono foglie…


III

Al gelo potato nel respiro
scende
alla nuda origine
con tutto il suo dolore il suo
grido
                          di cruda luce

scende l’intero buio

cerca il punto dove scoppiare
nell’abisso del primo verde

nido di linfa cerca

                   una voce rischiosa:
zampillo in agguato in ascolto
su timidi steli
                         trillando s’adesca…
                        
                         gestanti parole chiedono di entrare.



IV

In lamine d’equilibri brucia
sull’asse dell’oscillazione

l’istante più esposto
della freccia
con la punta spezzata
nell’enigma
su capovolta acquaforte
                                       d’un introvabile esemplare
su cui fu inciso un nome.

( II, III e IV da raccolta edita)


V

Fiore di ghiaccio

Filigrane sull’iride 
di seta e di gelo
nate  / in grembo alla   /  notte
da silenzi di neve
da scintille fredde   /    e cristalli
                                       
fuori   /  d’ogni   /  nominazione

/  di sette luci in cammino
                                            trapunte nel   /  fiore
che immobile varca

i battenti   /  dell’alba
e  al   /  chiarore che avanza
discioglie
sgomento
l’ incanto.

( da raccolta inedita)


VI

Teatro vegetale

A tonfo ciottoli    si sporge
fuori asse
la sgranata cima
a cigolio    di venti
                  sfiatati d’echi    in ogni

voce trasfusa    in schegge
               in ogni goccia     carminio
che il bagolaro spreme
per fameliche    bocche
                 in questa   svolta  che    tenta
il vuoto d’aria    e resta

fluttuante il bosco
che prima    dello sguardo    vede
                          qui a fari spenti
a passi disuguali
         m’indebito    con    la morte
                e allento lo spago    che mi tiene.

( dal poemetto in corso di stampa: Latomia )


VII

Attorno all’asta spiralica
l’inesplicabile
addestra i segni
per nevischi e sdruccioli
su piani scorrevoli
o su scale abrase ai pioli

per gomene senza imbarco
istoriate su antiche mappe
reggendo l’ordine dei fili

o quello scarto in più
in bilico sul fiato.


VIII

Ruotare il corpo, cercare
il punto d’intarsio
con la pelle del bosco

           avviene
per attrazione dei contrari
il paesaggio dei profili, avviene

pensarmi adesso
in altre pulsazioni
e mi vedo coincidere
con lo stesso campo visivo

della sovrana roccia che mi guarda

e mi sconfina in un dettaglio
fuori asse
che rompe dentro
l’assetto alle parole

se penetro
nel fitto potrei
smemorarmi
sparire.

( da: Latomia )



IX

Lo seppe così, semplicemente

Davanti al bosco.

Tra le creature che attendono il buio

Al raduno distante

Fermò i suoi passi.

Lo seppe dentro

E l’attesa fu quieta:

Silenziosa,

Immensa

Vide levarsi la Notte, 




L’ultima.

(da Origine inversa)



X

(… )

Bistrata di pulviscolo
l’uscita si ritrae
prende una direzione acuta
per luce blu vacilla
              dove ti fermi a bere

prende altro rosso
l’acero trionfale
            senza fretta di nuovo
cambia volto il bosco

e si fa densa la scena
sulla pelle riscrive cifrati accordi
fruscii rasoterra
tra le felci
sono io che li cerco
io li guardo
cogli occhi di un altro

(…)

(da raccolta inedita)

Marisa Papa Ruggiero è nata a Roma, ma vive a Napoli, dove ha insegnato per un trentennio nei Licei. La sua attività creativa (poesia lineare-visuale, prosa e critica) è documentata in diverse pubblicazioni antologiche e in riviste quali: «L’area di Broca», «Offerta Speciale», «Oltranza», «Lettera Internazionale», «Novilunio», «Risvolti», «AD HOC», «Paradossi Visuali», «Accenti Mundus». In «Poesia» è apparsa nella rubrica a cura di Mariella Bettarini: «Donne e poesia». Tre sue raccolte poetiche: Terra emersa (1991); Limite interdetto (1993); Origine inversa (1995, Premio Minturno); Campo giroscopico (1998); Persephonia (2001, presentato più volte come evento teatrale); Oblique ubiquità (in Locus solus –2003); Energie di campo (in Al di là del labirinto, 2010). Tra i libri d’artista: Il passaggio dei segni (2003); tra le opere in prosa: Le verità bugiarde (2008). È stata redattrice delle riviste: «Oltranza» e «Risvolti». Ha collaborato come redattrice alla fondazione della rivista di letteratura «Levania».

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà