martedì 26 luglio 2011

Anna Ruotolo: la poesia del raccontare

E' nel presente che le azioni e le storie si dipanano, e la poesia dell'immediato ha però un gusto che si abbraccia anche al passato, lo fa rivivere, lo racconta facendo emergere attimi, spigoli, vie, stati d'animo, atteggiamenti. Un modo originalissimo, un'impronta poetica davvero portentosa, quella di Anna Ruotolo, giovane poetessa casertana, ma che già sa farsi apprezzare in ambito nazionale per la sua qualità artististica, per la sua spiccata propensione per una poesia densa, raccolta, raccontata appunto, e nello stesso tempo fluida nel modo giusto, senza eccessivi precipitazioni. E' una poesia, quella di Anna Ruotolo, che parte da situazioni minime, da stati fugaci ma significativi, per allargarsi poi a onde nell'universo umano e sociale.
Credo che Anna Ruotolo proseguirà il suo cammino letterario e poetico ampliando ancora di più i suoi orizzonti, e l'inizio è ottimo, il suo animo e il suo talento già le permettono di affrontare molto bene non solo la scrittura, ma anche eventi organizzativi di ottimo livello, come si può notare leggendo il suo breve ma intenso curriculum.
Ascoltiamola ora nei versi che seguono; si tratta solo di un piccolo saggio della sua robusta poesia, ma già sufficiente, penso, per ricevere meritati e graditi commenti, se gli amici lettori lo vorranno.

Il piano della tua visita

I
Era notte, era giorno
ti segnavo la via per la piazza
sul palmo della mano
con il viso aperto, mai provato prima
e il dito trattenuto da un’acqua di fico
appiccicosa,
il fico verde di un qualche giardino.

II
Dunque, dopo averti spiegato
la direzione del vento
(eri tu quello ricurvo sul tavolo
tornato come da tante migrazioni
con le ali un po’ sgualcite
la faccia della meraviglia)
ti misi davanti un piatto di more.
Tu le conoscevi, le mangiavi tutte
e a me dicevi di no, per il bene,
per l’amore del sorriso
che così ancora mi porti.
III
Il piano della tua visita
fu segreto - piano infinito
una, due, tre tazze sul lavello
la notizia silenziosa che qualcosa
venisse dall’alto
e nel volgere in quel punto tutto il viso
qualcuno rimanesse al suo lavoro,
la lavandaia alle sue camicie
la mamma al suo mestiere fecondo.
Bello ora dire com’è andata
e cosa e non saperlo articolare:
tutto intero sei stato qui
sempre perdendoti un po’ negli angoli,
morendo (senza dolore e dispiacere),
brillando.

Dissi “raccontami una storia” e Manuela cominciò…

Stacchi la mano dal codino
che hai rigirato per minuti
tra le tue dita minuscole e chiare,
lanci le parole contro di me
e si alza una polvere di lucciole,
sparito il mare dietro la tua piccola
nuca, contro i miei occhi si rifà
per tremori ed ombre siderali.
Eppure sostiamo in un vialetto conosciuto,
c’è la nostra jeep, le luminarie dei lidi
qualche gelato che profuma la bocca
ma dici le storie come l’apparizione celeste,
le eclissi, gli impercettibili movimenti
della crosta, la corsa e la morte di una stella.
Come avrei voluto sentirmi raccontare così
questa, l’altra, ogni vita sulla terra.

Per tutta quell’età

Ci si affacciava dalla casa
l’unica che avevamo avuto
e l’incrollabile certezza, pure
avuta, di appartenere a tutto
per tutto avere fede
o per almeno un albero fitto
e, accanto, una scala
lunghissima e infinita
poggiata al tronco per tutta quell’età.

(da “Maldamerica”)

Ultime cose prima di partire

Quando la vigilia e la valigia
hanno la stessa ombra, la stessa faccia
e tocchiamo carte
stese di notte per preparare tutto
senza confusione, 

solo qualche animale docile
ci cade nel cuore,
quasi un abbraccio, una benedizione.


Valzer in 5th Ave

Anche se abitammo negli hotel più chic della città
a cinque stelle, a luci intermittenti sulle loro teste enormi
e alte come lance fino alle ultime stanze del cielo
anche se (quel tanto che si può) facemmo il giro degli stores
e salimmo le vedute più alte e promettenti
tenendoci su, spalla in spalla
come per cura e per destino

era come se avessimo perso giù nella 5^ Strada
la chiave di tutto 
e crescessimo nella bocca dello stomaco la premura
di scendere e sbrigarci tra i fumi
per poterla riaccendere, recuperare.


South Street Seaport’s melody

Dare mondo e fuoco a una visione, 
lasciare indietro chi non cammina.
Stendere le gambe come i pesci
sul ponte raggiante di Seaport,
mandare via il sonno, di notte in notte,
ché qui non si può dormire.

Anna Ruotolo vive a Maddaloni, in provincia di Caserta, e frequenta la facoltà di Giurisprudenza. Con le sue poesie ha vinto vari premi nazionali ed internazionali giovanili (tra gli altri, il “Premio Turoldo” 2009 nella sez. under 25, il concorso “Subway letteratura” 2011). Suoi testi sono apparsi in "Poesia” di Crocetti, ne “Il Foglio Volante – La flugfolio” di Amerigo Iannacone, ne “Il Foglio Clandestino", in “Capoverso”, in “Poeti e Poesia”, nel quotidiano “Il Tempo” e nella rivista italo-newyorkese “Italian Poetry Review”. Un testo tradotto in spagnolo da è pubblicato nel num. 4 della rivista internazionale “Poe +”. Dal 2008 al 2010 ha curato e condotto il poetry slam “Su il sipario” in diversi locali casertani. E' presente in varie antologie poetiche. Tra le altre si segnalano: "Quattro Giovin/Astri” (Kolibris, Bologna 2010) e "Raccolta di poesie" (Subway Edizioni, Milano 2011). “Secondi luce” (LietoColle, Faloppio 2009 – premio “Silvia Raimondo” 2009, Premio Turoldo 2009, Premio Int.le Città di Ostia 2011) è la sua opera prima. Gestisce il sito personale www.annaruotolo.it e il blog letterario SpazioPoesia.2 (http://spaziopoe.blogspot.com)

giovedì 21 luglio 2011

Federica Volpe, una dei "Quattro giovin/astri"

Federica Volpe è una giovane poetessa di Carate Brianza, nella nuova provincia di Monza. Come si leggerà nelle note che mi ha inviato insieme ai testi che andremo a pubblicare qui di seguito, la nostra autrice ha un rapporto complicato con la propria terra, ma intesa in senso generale, io penso, in quanto parla di "rinascita" continua, rinascita da velate leggerezze dell'essere, come per affermare, o riaffermare, la propria solidità e la propria presenza attiva. E questo si notava già nei suoi testi apparsi nella interessante Antologia "Quattro giovin/astri" della Kolibris Edizioni di Chiara De Luca (Bologna 2010), insieme a quelli di altre tre valide giovani voci poetiche: Francesco Iannone, Anna Ruotolo e Vittorio Tovoli.
Questo forte desiderio di esserci, non di apparire o di dimostrare, ma di ribadire assolutamente la verità del proprio spazio fisico e spirituale, nell'autenticità della propria vita escludendo dalle prorpie vedute e considerazioni ogni tipo di ipocrisia e di pregiudizio ("Mi sento rocca di radici / incoronata da un ritorno che fu addio e che ora / abbraccia ogni mia fibra come per voler restare"), si esplica attraverso uno schema lirico a volte aspro, ma sempre comunque coerente e sincero, autenticamente poetico.
A questo punto, sarà interessante annotare i commenti dei lettori, e sicuramente saranno molti e ben variegati, perchè la poesia giovane di Federica Volpe merita di essere ben considerata, come la poesia giovane di tante altre valide promesse.


Sento la fiducia risalirmi i ciottoli come il verde 
dell'edera. Forse si mangia la salute della pietra
ma, non so come, l'adorna. Mi sento rocca di radici
incoronata da un ritorno che fu addio e che ora
abbraccia ogni mia fibra come per voler restare. 

*
Ora sento che dobbiamo rientrarci fino
al midollo, sentirci unica cosa raccolta
nelle viscere del letto, ricomporre le cellule
cadute in sette anni di specchi e di rovine. 
Ecco: vedi che la mano non è intera
a palmo vuoto, come in cerca di prigioni?

*
Mi hai detto: riconoscimi 
perché mi hai dato un nome
ogni volta che hai pianto, 
o tenuto tra le braccia come
incarto di mimose a mezz'estate
-non ti sentivi donna ma
nel chiamarmi ti riconoscevi-.
Mi hai detto: riconoscimi 
oppure sai chi sei?

*
M'amalgamo al lucore del mio sangue
a striare la saliva di ragioni, e inietto
la morfina che non lenisce i sentori
ora che anche tu sei pene corporali.


I giovani si attardano al portone.
Si dicono frasi piene di "per sempre".
La vecchia li spia dall'alto del balcone:
"Ragazza, non sai che i "per sempre"
si mutan tutti in "mai"?
Io questo lo sapevo, perciò non mi sposai".
Ciò pensa ritta la zitella colma di orgoglio e calore
senza accorgersi di vivere, anche se di altri, l'odiato amore.


(da Se non sono gigli, raccolta pirata)

*
TEORIA

Credo che il vero cuore
sia il cervello.
Il cuore, il muscolo,
non è altro che un mestolo che mesta
il sangue e le impressioni.
La bocca il cucchiaino che accostiamo
agli altri perché c’assaggino.
Gli occhi sono imbuti che s’imbevono
di liquido reale, che lo stringono.
E allora il cervello?
E’ lo stesso calderone
che tiene uniti bocca e occhi
e cuore,
e il resto,
è ciò che ci contiene
e che crediamo, invece,
di contenere.
Ci siamo sempre visti
- a mio parere, per pietà! -
montati ad un piacevole contrario.

*
“Le cose regalate
non vanno più ridate”
salta le corde vocali
la mia voce bimba
e ora m’accorgo
di quanto perfetta
fosse la sapienza
limata in settenari
inconsapevoli. Ma
ora forzata è la metrica,
e le leggi, e la rima,
e tu mi lasci tra le mani
i doni e li fingi mai dati,
poggiati sul palmo come
il niente, o l’inutile,
e lo fingi mai in tremore
il cuore colibrì in selva
accecato. Forse bimbe
avremmo dovuto incontrarci,
giocare, stringerci le mani
senza dentro patti. Avremmo
dovuto conoscerci perfette,
abbozzate. Ora
a me resta la nenia
dei lacci, a te la via.

*

A Roberta D’Aquino

QUADRIFOGLIO

S’è aperta come niente
la porta della mano.
E’ come quando bimbi
si mostra un quadrifoglio.
Io non t’ho detto:
“vedi, guarda, che fortuna”,
ho solo temuto che tu
per contemplarlo prendessi
in mano la mia mano.
Chissà cosa ti lascio di me,
se ti tocco.
E’ come quando s’incrociano
le nubi.
“Sei inquietante”, t’ho detto
mangiandomi il silenzio,
e tu furba mi hai risposto:
“forse tu t’inquieti perché
ti senti d’esser pioggia”.
E hai sorriso perché in mano,
senza dirlo, avevi un quadrifoglio.

*
A Giovanna Salatino,
ponte di poesia

Cammina in un paese
che è fatto di poesia,
si muove, e a mani tese
si dona a qualche via
- “colle dell’infinito”,
“del passero solitario”-,
si mischia a quel nutrito
mondo. Lei fa da estuario
al fiume fossile  dei miei scritti,
che in lei incontrano la dolce manna
d’un mare; a Recanati, senza conflitti
Silvia che cuce ha incontrato Giovanna.

*
Mi sto offrendo come un pane scarno,
vedi, nelle luci ancora livide del giorno.
Puoi vedere ogni ditata, ogni intemperia,
- non puoi vedere i grani e l’acqua
e i sali di questa lieve offerta – .
Taci ora, prima ch’io ritorni a reperirmi
solo scarto di cucina, prima che getti quello
che ancora nudo d’ombra puoi mangiare. 

*
Quando tornerai a  spingerti in me
nel continuo dover arretrare
sarà conoscermi o farti conoscere
nel tocco che conosce – marcarmi - ?
Non so più se era Ulisse che si univa
alla terra o la terra senza volto che si dava.

Federica Volpe vive a Carate Brianza, grembo da cui è nata e da cui tenta la rinascita quasi ogni giorno. Vi giace come cosa senza peso, cullata dai respiri delle esistenze silenziose  che le parlano. Questi dialoghi senza nome li chiama "poesia". 
Ha pubblicato LEMBI (Onirica Edizioni, 2010) ed è presente nella antologia QUATTRO GIOVIN/ASTRI (Kolibris Edizioni, 2010), oltre che in una serie di altre antologie. 
Di ogni cosa che ha scritto sente l'insoddisfazione che sgorga dalla non corrispondenza del canto che solo sa ascoltare e non riprodurre, e non ridare. 
Ha creato con Barbara Bracci il sito VIR-US (http://www.vir-uspoesia.beepworld.it/), collabora ai blog I GIOVIN/ASTRI DI KOLIBRIS (http://giovinastridikolibris.wordpress.com/) e FARAPOESIA (http://farapoesia.blogspot.com/). Ha un blog personale destinato alla diffusione della poesia altrui (http://federicavolpe-poetry.blogspot.com/) e un sito personale (http://federicavolpe.beepworld.it/).

mercoledì 13 luglio 2011

Marco Righetti e il suo "Seguito mancante"

Conobbi Marco Righetti in occasione del Premio Letterario "Venanzio Reali", a Sogliano sul Rubicone, nel 2005. Diventammo subito amici, e questo è senz'altro un ottimo esempio di come la poesia possa contribuire ad avvicinare e a sintonizzare le persone, abbattendo automaticamente, o al limite affievolendo, ogni barriera, ogni sovrastruttura, ogni granitica autoconsiderazione e ogni impenetrabile guscio che l'uomo si autocostruisce per difesa o per preconcetto. La poesia libera l'animo ed è un ottimo conduttore di sentimento, di riflessione, di arricchimento vicendevole.
Ed ora sono felice di proporre la poesia dell'amico Marco Righetti, una poesia sostanziosa, espansa culturalmente e sentimentalmente, perchè abbraccia la storia, il pianeta, la bellezza greca e classica, ma anche perchè è sensibile e attenta a non lasciar fuori il minimo sospiro affettivo, la minima traccia di sentimento "ombelicale".
Poeta esperto e impegnato, Marco Righetti ci offre un saggio della sua poetica statuaria e nello stesso tempo fluida, in questi versi che seguono, tratti dal volume "Il seguito mancante" (Puntoacapo editrice, novembre 2010). I primi tre appartengono alla sezione “Ghiandole esordienti”, il 4° e il 5° al poemetto in memoria della madre: “Ombelicale, parole alla mia sempre-madre” (una commossa elaborazione del lutto), il 6° alla sezione “Prove di resistenza”.

(da: Ghiandole esordienti)

*
Qui a Delos fu il primo viaggio con te.
I leoni guardiani stanno ancora lì
salini, asfissiati.

Veniamo a cercare
un inchiostro appena leggibile
sotto le lancette dei piedi,
un Apollo minimo,
o il polso di animali tuttora
proni al sole
in un beato castigo.

Correre verso un passato
fa sbandare i conti
aumenta sensibilità agli esterni.

L’Agorà di Teofrasto ti girava intorno
con dogmi e dissolvenze,
alla rupe di agrumi
inciampi in traiettorie scolpite,
in un perché qualunque.
Le concordanze marcano:
furono scintille
in cui c’ingabbiammo.
A saperlo non le avremmo accese
oggi,
noi profumi spogli
dei ragazzi che eravamo.

Paleokastritsa

Per una vita da svernare
per un aperto sole
usciamo
nel cerchio di popoli dormienti

strade scure sopra vesti bianche

tutto è scritto
anche la ragnatela
che tiene appeso l’eremo
e lo fa tremare
al primo cappio di vento.

*

Luglio a Kanoni ha un’onda circolare
che ripassa lingue di terra
il naufragio è nel suono sordo
che chiama idoli dal mare
e asciuga il tremore d’inverni.

Le didascalie che pendevano
si sono liquefatte,
un'assoluzione,
statue parlanti e korai sono frenate
da questa trasparenza

il presente si veste a fatica,

non c’è molto
un’incudine deserta,
hanno gettato un pontile sui luoghi
per un ascolto sicuro.

Lo scoglio-mandibola
piega facciate di caldo
nella fraternità incerta del riflesso,
donne bagnavano
un credo quotidiano,
ci sono, come punto d’orgoglio,
cantieri d’arance
monologhi straziati dal vento,
piccoli pugni che oscillano
senza bersaglio

*

(da: Ombelicale, parole alla mia sempre-madre)

Potrei dirti del mio tempo scalzo
di te
ho appeso alla porta
un avviso di felicità andata

è lì col suo artiglio spuntato
quella gatta silenziosa,
forse dorme.

Potrei dirti di nuvole che scrosto
dai vetri, paci che ancora
tiro giù con un sereno
e una colla per fermarlo.

Continuo a chiedere una fede fatta di luoghi,
madre,
uno stipite celeste da forzare
per stanarti.

Tu assembla dita di filatrice
scrivi che il bianco della carta serve
a scolorire un po’ il tuo mare

il cielo non sta in estasi
ma è nel filo di vento che sfugge
al rigore di un’assenza e già porta
tuoi ritornelli ai miei piani bui.

Se ora m’annebbia novembre spinoso
rimango dietro i cancelli del cuore
confidando che li apra un tuo angelo.

*

Nel mese d’epilogo
incolonnavi rifiuti dietro il cibo

la malattia spina per centimetri
con lavorio che spingeva
a un ritrovarsi planetario
quando poi ti rivedevo.

Volevi una guarigione in prestito
fermarla un attimo per noi

ripassavi recite di una vita
a volume basso
per non disturbare

ora il debutto ti ha sciolto
verso un’apoteosi promessa
a scatola chiusa

un’assenza follemente iniziata
un mattino claustrale

Stacca un file dal tuo oriente assoluto
e dimmi com’è il fondotinta del paradiso
filami tende di Dio

e tu sull’entrata,
ultimogenita
della sua disciplina.

*

Nel mese d’epilogo
incolonnavi rifiuti dietro il cibo

la malattia spina per centimetri
con lavorio che spingeva
a un ritrovarsi planetario
quando poi ti rivedevo.

Volevi una guarigione in prestito
fermarla un attimo per noi

ripassavi recite di una vita
a volume basso
per non disturbare

ora il debutto ti ha sciolto
verso un’apoteosi promessa
a scatola chiusa

un’assenza follemente iniziata
un mattino claustrale

*

(da: Prove di resistenza)

Le donne di Gauguin

Potrebbe essere che non alitandoci
voglie di un’attrazione
stridano grilli
al posto di colloqui.

Ci aggiusteremo una luna di latta
all’ora di cena
la verseremo fidenti

ci diranno
il capolinea delle partenze
le guide nel tratto finale del viso
il sale che indirizza
i secondi a sud,
come sovrapporre
cartine chiare
a giorni opachi.

Indosseremo sorrisi a taglia unica
li faremo sfolgorare
davanti alle donne di Gauguin,
avvolte nel nero
come gengiva gonfia.

Marco Righetti, ex avvocato penalista, è iscritto a Lettere - Italianistica. Ha vinto numerosi premi letterari (Lago Gerundo, Venanzio Reali, Trieste poesia, Il Camaleonte, Pensieri in versi, Inedito anziano, V. Marcellusi, Hermatena, Santa Maria del Colle, Le Conchiglie e il mare, M.Yourcenar, Augusto Mancini, Peter Russell, Emilio Greco, P.Melis, Insula romana, ecc). Nel 2010 è finalista per la prosa al premio “Cose a parole”  e  al concorso “Vita in prosa”. Nel 2011, nuovamente finalista al Premio Aspera, è 3° alla ”Vita in prosa”, 2° al “Tra Secchia e Panaro”, 8° al Premio Turoldo. Dopo un’iniziale partecipazione ad antologie di Book Editore, tra cui Una strada di parole  e  I Quaderni Del Calamaio, nel 2006 pubblica la raccolta poetica Dirette (Lietocolle), “Premio opera prima” all’Astrolabio 2007. Nel novembre 2010 è uscito il suo 2° libro di poesia, Il seguito mancante (Puntoacapo edizioni, prefaz V. Serofilli, postfz P. Perilli). Con testi e recensioni collabora alla rivista cartacea Il clanDestino e, on line, a Senecio (di E. Piccolo e L.Lanza), dove sono usciti fra l’altro il poemetto Riscritture e le relative note a lettura di A.Ferramosca.
È presente in vari blog letterari, fra cui quelli di A.Spagnuolo, F.Santamaria, I.Mugnaini, la community di Poeti e Poesia. E’ recente la sua collaborazione con il Club degli Editoriali - Associazione nazionale professionisti e operatori dell’editoria.
Suoi inediti sono stati pubblicati sul numero 34 di Gradiva, altri figureranno sul prossimo 39-40. Uscirà con inediti (narrativa) sul n. 26 di La Mosca di Milano.
Suoi testi sono stati coreografati in occasione di grandi eventi, Festival internazionale della Val di Noto a Catania, Accademia di Santa Cecilia: Premio delle Arti, Premio Roma, programmi televisivi Rai, Castello Odescalchi di Bracciano, Teatro Ruskaja dell’Accademia Nazionale di Danza, Conservatorio di Trapani, Premio Giuliana Penzi a Udine,ecc.
Nel 2009 è finalista al premio Nicola Martucci nella sezione Attore, per la quale interpreta il monologo centrale di Edipo da “La serata a Colono” di E.Morante.
Autore di pièces, è 2° al medesimo N. Martucci 2010 nella sez. Testi Teatrali con l’atto unico 2070: due ombelichi.
L’atto unico Il posto verrà pubblicato sul numero 10, attualmente in stampa, di “Teatro contemporaneo e cinema”.
È finalista al N. Martucci 2011 con la pièce Benedetta guerra  

giovedì 7 luglio 2011

Vera D'Atri: al poeta non sono dati limiti

Ed è proprio così: al poeta non sono dati limiti. Purchè quello che ha da dire venga proposto attraverso uno schema ed uno stile originale, capace di suscitare nel lettore altri interrogativi, rimandi, evocazioni, nuove sensazioni. E' il gioco delle parole all'interno del verso, gli accoppiamenti indovinati, capaci di creare nuove figurazioni; è il gioco delle allusioni, delle metafore, che allarga l'orizzonte e fa intravedere scenari imprevisti, inattesi. Così è la poesia di Vera D'Atri. Ricordo la fluidità e l'eco dei suoi versi in "Una data segnata per partire", e ritrovo qui, in questa selezione che potrete anche voi gustare e commentare, la sua poesia fortemente evocatrice, che raduna immagini da un capo all'altro della natura e del cosmo, per fonderle in un unico melodioso respiro.
Ben volentieri, dunque, pubblico qui di seguito uno stralcio poetico di Vera D'Atri, con la speranza che gli amici possano e vogliano aggiungere qualche loro interessante commento.

*
Allora scalzo venne il tempo a mantenere segreta la luce
come un campo la semenza.

Cadde l’alba. Con occhi dilatati il più piccolo dei tuoi respiri
spezzò infiniti intrecci.

Sopra il letto, l’umido e tenue odore del risveglio
venne a dire è lo spillo, è la farfalla.

A quell’ora, a quell’angolo,
la città schiariva la larga faccia di travertino
come avesse avuto bisogno di suscitare ancora
un moto di speranza.

(Sola o non più sola) dentro ad un’ipotesi, quale il dettaglio
o quale inconsistente spartire adesso per non lasciarti andare?

*
Rospi e ninfee, cortecce senza cuore.
Al cartografo non interessa tutto questo.
Il cartografo segna i limiti, traccia le coste,
sul suo foglio rimpicciolisce ogni cosa.

Della Terra dà visione intera placando l’indeterminatezza
del nostro percepire.
Segna il mare in blu e la terra in verde, in marrone le montagne,
in bianco i picchi più alti, in azzurro lo zigzagare dei fiumi
e le macchie immutabili dei laghi, addobbando d’ocra i deserti.

Felicità del semplice. Gamme leggibili e apprezzabili
contrapposizioni.
Rospi e ninfee, cortecce senza cuore non appaiono.
La minuzia che dilania e satura i pensieri
appartiene al poeta. Al poeta
non sono dati limiti, egli è libero come una solitudine
d’afferrare l’invisibile e l’altrove o di concentrare se stesso
sulla nudità pastosa di un labbro, sulla piega
malinconica e impercettibile che assume dopo il sorriso.
Ne ha di cose da ingrandire il poeta. 

Ma io, che sono poeta, avrei volentieri fatto il cartografo
se non ti avessi conosciuto,
avrei convintamente trascurato rospi e ninfee, cortecce senza cuore
pur di restare entro limiti sicuri,
tentando la fortuna dei materiali esatti
e delle linee artificiali.

*
E come a dire è solo questo il ricominciare;
il rompersi del buio
tra le rotaie lungo il marciapiede e l’erba nera,
dentro lo sfiato polveroso di una tristezza ovale, corale, madornale,
l’incredulo passato rappreso nelle tasche
fatto di giochi fatti, l’attesa dei colori,
laggiù,

dove sconfina il blu del paradiso
prima che arrivi il sole, quel  mezzano, a utilizzarlo nell’acquerello
del mattino.

*
E’ sufficiente una sola balena all’orizzonte
per annerire il mare, determinando, da quel momento in poi,
che tutto il mare muove

in avvertimento
per suo inabissarsi.

Un attimo prima la serenità dell’azzurro.
Un attimo dopo la paura dell’ombra.
La paura dell’ombra poi è per sempre.

*
Era venuto un giglio a dedicarsi tutto
alla bellezza
ed era finito stracquato nella terra gonfia
come non avesse mai sorriso.

Così è l’inverno a dirci chi siamo.

La casa conosce il ritrarsi mattutino delle stelle.
Questo svanire discreto sarà presto nei gesti di sempre.
E in tale forma si presenta e in perfetta monotonia
il diroccarsi dei ripari,
quando mancano anni alla burrasca
e il comandante, bandiera contro, se ne sta nello studio
tutto arrotolato
ad uno smilzo bastone,
   
come una profezia non confermata.
Forse non sorrideremo mai;
                             
ogni paziente rinuncia, 
è un argine slabbrato, una regione insicura che inghiotte
la nostra miopia. 

*
L’alleanza tra la fiaba e la vita passa attraverso questa miopia
di fodere a fiori,
il modo di scherzare che hanno con i mobili
a ridosso della parete,
leoni marini su rive di un lontano oceano senza voce.

Sopra la tavola l’acqua che scolora il vino
e il pallore di dicembre, laconico tra le losanghe delle grate,       
così, al riparo della casa,
corolle crescono attorno ad un cespo di silenzio;
                            
Per essere veramente al sicuro 
brinderanno assieme al domani.
                           
Ecco, due ombre ora gettano la loro vita
nell’intreccio delle mani, hanno paura e scherzano,
mentre la prima stella si posa
al di là del muro, proprio sopra al cesto delle mele vizze,
                              
anche lei bianca di freddo e solitudine
come un’Immacolata dai tratti sfuggenti.

*
Preziosi i luoghi e prezioso 
l’arpeggio delle mosche in gran ritmo 
su meritevoli fili d’erba e capocchie gialle.

I tronchi ai lati. La strada che compie una partenza
mettendo al centro gli oscuri pensieri del ritorno.
Per quanto, senza volere, li dimentichiamo stritolando
sotto le scarpe
un’infinità di soggetti e di oggetti.

Ma evitiamo i cespugli. Evitiamo
di smagliare la natura,
di principiare a confonderci col tatto.

Prendiamo tempo; nessun arrivare, nessun cogliere.
C’è tanto e manca un senso, mancano
le progettuali dinamiche di ogni giorno.
Che la precisione, poi, continui a sbagliare,
non includendo panorami senza opinioni tra le beatitudini,
ci sembra impossibile.

In terra le formiche.
Tante, formidabili. Le superiamo lasciandole lavorare,
mentre pensiamo che indubbiamente,
nella vita di prima, con gusto e apologia di morte
le avremmo schiacciate.

Vera D'Atri è nata a Roma, vive a Napoli dal 1972. Archivista, solo dal ‘97 inizia ad interessarsi di letteratura. Ha all’attivo alcune pubblicazioni di racconti in ambito antologico a cura della libreria Evaluna ( “Raccontandosi”) e dell’editore Di Salvo (“Malamore”).
Una prima raccolta di poesie, “Il museo di vaniglia”, viene fatta circolare a cura delle Edizioni La Biblioteca, con commento di Giovanni Pugliese. Segue una menzione di merito al concorso Lorenzo Montano, diciassettesima edizione, con la raccolta “Abitare Sparta”. A fine 2009 esce “Una data segnata per partire”, raccolta di poesie edita dalla Kolibris di Bologna.
A luglio 2010 esce “Buona bella brava”, libro di narrativa edito dalla Robin.
Quarto premio ex aequo al concorso “La vita in prosa” 2011 con il racconto “Il gatto rosso”.


Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà